martedì 10 novembre 2009

Cassero Magazine - Interview.








Quando e come hai iniziato a occuparti di fotografia? Lavori in digitale o analogico?

Tutto è iniziato con la scrittura, ero molto piccolo e molto balbuziente. Già dalle elementari preferivo ascoltare e scrivere piuttosto che comunicare verbalmente. Col passare del tempo, il bisogno di scrivere è diventato passione per la letteratura e in pochi anni l’impulso alla narrazione si è caricato di nuovi e più intensi significati, nonché di inedite possibilità creative. Così ho cercato di coniugare il mio linguaggio letterario con il più immediato linguaggio visivo. E’ stata proprio l’immediatezza e la spontaneità del mezzo fotografico farmelo, infine, preferire. Ho iniziato a fotografare due anni fa, e dalle mie mani sono passate compatte digitali, analogiche Pentax degli anni ‘90, macchine a pozzetto russe degli anni 70 ed ora lavoro esclusivamente in digitale per le scontate possibilità creative che la postproduzione offre. Anche se la pellicola ha sempre il suo fascino...



Quali consideri come maestri che hanno influenzato i tuoi primi passi nella fotografia?

La prima volta che sono rimasto a bocca aperta di fronte ad una fotografia, era firmata Diane Arbus e si intitolava “Child with a toy hand grenade in central park”. Hai visto bene notando nella mia fotografia qualcosa di Saudek, è stato forse il mio secondo imprinting. Poi c’è stata l’amicizia con Luigi Vitali (il Luigi di LuigiyLuca), un fotografo bolognese naturalizzato berlinese e le lunghe discussioni sull’arte e sulla ricerca creativa. Tuttavia, la mia cifra stilistica non è in debito nei confronti di qualche singola figura della storia della fotografia, quanto piuttosto verso il mondo della letteratura e del cinema. Mi riferisco soprattutto al simbolismo di Baudelaire, Majakovskij e Montale per la poesia; Baricco, Murakami e Ende per quanto riguarda la narrativa; infine, se mi si chiede del cinema, non posso non parlare di Lynch, Kim Ki Duk e Gondry.


Il tuo lavoro è prevalentemente in bianco e nero. Da cosa deriva questa preferenza?

I colori confondono. Tendono a porsi all’occhio dello spettatore come mera rappresentazione della realtà, distogliendo l’attenzione dal significato e intrappolandola nel signficante. Il bianco e nero, nel suo potente e naturale contrasto assume la funzione di una struttura semplice che esalta il concetto senza celarlo. Si tratta di uno strumento funzionale al simbolo, poiché ne semplifica l’intorno. Di contro gli scatti più teatrali e ironici, quelli che raccontano una certa situazione - e il cui significato non trascende tale situazione - esibiscono colori forti e vivi.


I tuoi scatti si contraddistinguono per essere estremamente costruiti: quanto è importante poi il lavoro di elaborazione (digitale o di stampa?) che fai dopo la ripresa?

Definirei la postproduzione digitale come la fase pittorica del mio lavoro. La fotografia non è rappresentazione della realtà, bensì di una realtà: una certa angolazione, un dato momento, una particolare luce. L’elaborazione successiva allo scatto disperde anche quest’ultima traccia di oggettività sfumandone i contorni in rappresentazione onirica. Così si estingue il debito verso il reale, e la documentazione diventa creazione.








Che tipo di sensazioni e riflessioni speri di suscitare con le tue immagini?

Sinceramente, non me ne curo. All’atto creativo, per quanto mi riguarda, non è sottesa una necessità comunicativa. Si tratta di un processo di esplicitazione e di sviluppo di sensazioni, emozioni e visioni, che affido ai miei lavori. Naturalmente c’è la speranza che qualcuno ne colga le sfumature, non meno la volontà che altri diano loro nuovi significati e questo, certo, presuppone un pubblico. Tuttavia il problema principale non risiede tanto nel come la fotografia verrà osservata, ma come imprimere in essa una suggestione, che è tutta personale. Le modalità di rappresentazione, invece, rientrano in un contesto simbolico comune e riconoscibile. E queste, sì, sono ovviamente dirette al pubblico.



Nella dicotomia tra ideale e realtà mi pare ti poni decisamente dalla parte del primo: sei però anche oggetto della tua arte, e quando non sei in scena tu c'è il tuo compagno. Che importanza ha la componente autobiografica e all'opposto lo straniamento in essa?

La mia è una fotografia ambigua. Io stesso distinguo solo leggermente la componente diaristica da quella teatrale. Ma soprattutto la mia è una fotografia delle piccole cose. L’universale nel particolare, l’infinito nel finito.

In una visione dal piccolo verso il grande, è evidente che quasi ogni significato possibile può essere rintracciato osservando ciò che di solito solamente vediamo come comune e familiare. La componete autobiografica risulta essere un mezzo, piuttosto che un mero rimando egologico. Non sento il bisogno di fotografare una metropoli brulicante di persone per cogliere la tensione umana, nè la cima dell’Himalaya per descrivere la pace, preferisco trovarli nel dettaglio di un tendine teso o in uno sguardo che affiora dall’acqua.





Nel tuo Flickr accosti a quasi ogni immagine estratti da componimenti poetici (come Walt Whitman per il video Deadbynature), e testi di canzoni (di Mr Hudson, Antony And The Johnsons), che a volte danno anche il titolo alle foto, come per The Sun's Gone Dim (Johann Johannson) o We Were Sparkling (My Brightest Diamond)...

Qual è la funzione di tutto ciò, si tratta di immagini che nascono dalle suggestioni di quei particolari componimenti poetici o musicali, o questi accostamenti sono creati da te dopo e intesi a sviluppare una particolare tensione interpretativa tra immagine e testo/citazione?

(per un tuo progetto di libro fotografico, lavoreresti così, accostando testi..?)

Hai colto bene i miei intenti con la seconda ipotesi. Ogni accostamento o riferimento, sia musicale che letterario, è pensato a posteriori per contestualizzare l’immagine e rendere l’esperienza d’osservazione sinestetica. Il mio passato non è, come dicevo, fatto di sola fotografia, nè di solo arte visiva, ma ho cercato di esplorare le diverse forme di espressione artistica, cogliendo di ognuna di esse gli aspetti più peculiari ed esclusivi ed ora miscelandole, cercando di giungere ad un unicum più organico. Musica e letteratura sono parte della mia vita e, come tali, della mia fotografia.

Tuttavia credo che questa fase “sinestetica” sia appunto una fase. Ritengo che, quando la mia fotografia sarà abbastanza matura da reggersi da sè, piano piano questi accostamenti andranno scemando. Per un libro fotografico, prospettiva allettante quanto lontana, mi limiterei a pubblicare opere e titoli.





Non solo non conosco nessuna tua foto sessualmente esplicita, ma nemmeno che usi il nudo integrale. Una scelta cosciente? Come mai?

Il nudo integrale non è il mio genere preferito. In ogni caso ho fatto diversi scatti del genere, i quali, il più delle volte sono rimasti privati per volontà dei modelli o mia. A ben guardare, però, c’è più di un nudo integrale, nel mio portfolio pubblico...


Progetti futuri/in corso?

Ho appena concluso un lavoro per una rassegna teatrale a Ferrara (“Società a Teatro”). In questo momento collaboro con diversi registi e mi sto occupando dell’artwork, dei videoclip e dei visuals per il duo electropop UnisonDetune. Progetto intanto un portfolio da presentare ad alcuni critici e gallerie, italiane e internazionali, e una collaborazione con LuigiyLuca per girare un videoclip musicale a Berlino.